Le «lavandaie notturne», come tipi specifici di esseri fantastici, appartengono alle diverse tradizioni popolari d’Europa
[1]. Sulla base delle loro particolari caratteristiche possono esser classificate
grosso modo in tre categorie (dai contorni non sempre distinti): «esseri fantastici», «morti», «streghe»
[2].
Diffuse in tutto il Triveneto montano, ma con nomi e caratteristiche che variano da una zona all’altra (
Anguane,
Angoane,
Inguane,
Aiguane,
Aivane,
Gane,
Vane,
Oane,
Longane,
Ongane), sono le
Anguane, «amiche delle acque». Il loro nome deriverebbe dal latino popolare
aquana ‘ninfa d’acqua’, ‘ondina’ (etimo proposto da Angelico Prati) — cfr. la forma
aiguana attestata in Giacomino da Verona (XIII sec.)
[3], i termini friulani
Aganis (Anguane) e
aghe ‘acqua’
[4]. A tale proposito, Dino Coltro osserva: «si può dire che l’
anguana o
aquana rappresenti una
fata dell’acqua»
[5]. Esiste anche l’ipotesi:
anguana < latino
anguis ‘serpe (d’acqua)’, suffragata dai racconti del Vicentino in cui le Anguane si mutano in serpe
[6].
In genere si dimostrano miti; talvolta appaiono come bellissime giovani o sirene
[7], talaltra come brutte vecchie malevoli, oppure si ritiene abbiano piedi caprini. Spesso abitano in caverne: se ne conoscono sui monti Lessini (e qui si ritiene perfino che le Anguane dopo il tramonto divorassero gli incauti passanti) e in altri luoghi del Veronese, ai piedi del monte Grappa, nel Cadore (a Pieve rapiscono donne e bambini), sui monti sopra Cortina, presso Chiusaforte (Udine), ai piedi del monte Bedolè (Primiero).
In vari luoghi si racconta facessero il bucato di notte: ad esempio, sul monte Summano (Verona) tale attività veniva svolta ogni sabato.
Nel loro insieme le Anguane possono essere annoverate tra gli esseri fatati
[8], ma — rileva Carlo Lapucci — a differenza delle fate, non sono immortali, né hanno poteri illimitati
[9].
Particolarmente interessante, però, quanto rileva Raffaello Battaglia (1948-49): «Un elemento che le leggende sulle "
Anguanes" hanno in comune con quella sulle anime dei morti potrebbe essere quello relativo alla loro attività di lavandaie notturne. Rumor di panni lavati nell’acqua dei ruscelli s’ode talvolta nelle campagne durante la notte, secondo i racconti popolari; e il viandante che l’ode s’affretta ad allontanarsi, perché sa che è opera di anime che vengono dall’oltretomba»
[10].
Riguardo alle Anguane delle tradizioni del Bellunese e del Cadore, rimane fondamentale quanto riferito da Angela Nardo Cibele in Superstizioni Bellunesi e Cadorine, in «Archivio delle Tradizioni Popolari», Palermo, 1885; ne riporto pertanto i passi che mi paiono più rilevanti.
« Dall’Auronzo, procedendo fino a Cortina, a poco a poco la personalità della Redodesa si perde e si confonde. Essa cambia del tutto il suo nome e diventa Anguana. È però sempre lei malgrado la mutazione del nome ed anche qui resta fedele alle sue consuetudini, tanto è vero che ogni femmina s’affretta a terminare di filare la sua rocca se nò vien l’Anguana. [...]
« [...] Le Anguane ed Oane o Longane che vengono confuse dal volgo con le streghe e con la stessa Redolosa, hanno una storia pietosa e gentile che mi venne raccontata in tutti i paesi che ho visitati da Pieve a Cortina. [...]
« Le Anguane abitavano per quei di Pieve a Lagole tra i canneti e negli antri. « A Valesella, a Calalzo ed altrove, scrive il Ronzon, si nota ancora il così detto Creppo delle Anguane. Erano donne coi pie’ de capra, che in Auronzo si chiamavano per antonomasia « le pagane, depè caura, dove che le se buteva i putei sule spale e zò dala montagna le veniva a tavar. Le gera roba forestiera, vedeu, e adesso le à desmesso o le xe morte tute.
« A Cortina le Anguane stavano sopra Cadin, montagna che è a Nord-Est del paese. A Lagusin, sotto Loretto Basso, avevano fama di bravissime, famose; persin lavoravano e ricamavano di notte. Vi è qualcuno che conserva fazzoletti ricamati da esse!! A Cortina invece si chiama la liscia delle Anguane il bucato mal riuscito, appunto per la loro abitudine di far tutto di notte, il che è impossibile riesca bene. Ciò è in contraddizione con la fama che hanno dovunque di brave massaje.
« Dice la tradizione generale che fossero di faccia bellissima ed avessero lunghe mammelle che gettavano dietro le spalle per allattare i loro bimbi raccolti entro ceste attaccate al dorso. [...] »
A tali notizie Nardo Cibele fa seguire tre storie cadorine sulle Anguane, nella seconda delle quali si racconta che un mago liberò il paese — a quanto pare, Calalzo — da quegli esseri femminili, che aveva raccolti su un carro pronunciando la formula: «In nome di Dio e dela Madona
I car e rode e duto (
tutto)
de Pagogna». «E — così termina la storia — tutto d’un tratto scomparve, e tutto diventò Pagogna.»
[11]La Nardo quindi continua col narrare altre due «fiabe» (due varianti), sempre cadorine, in cui però le Anguane protagoniste sono piuttosto delle tipiche «streghe» (due donne) che si ungono (solo la testa) ed escono salendo per il camino, per raggiungere nel primo caso il luogo del loro convegno (il monte Rite), nel secondo l’abitazione della loro vittima, un «bambino da latte», nella quale cercan di entrare sotto forma di gatte
[12].
In alcuni luoghi del Veneto, le «lavandaie notturne» hanno altri nomi, pur non cambiando più di tanto caratteri e funzioni.
Dino Coltro ricorda le
Fade Bianche della Valle del Brenta: «abitavano i
covoli delle Fade (Collicello di Valstagna [Vicenza]) da dove uscivano di notte a stendere il bucato». E ancora le
Bele Butele di Campofontana (Verona), che erano chiamate anche
Strie,
Angoane e
Stroliche: «aiutavano le donne di casa a lavare e asciugare il bucato», ma soltanto se era bianco; «lavoravano di notte», dall’Ave Maria della sera fino all’Ave Maria della mattina, quando rientravano nei covoli (‘grotte’)
[13].
Sui monti Lessini, nel territorio di Velo e Roverè Veronese (in cui permangono tracce della cultura cimbra), si narra che la regina delle
fade al chiaror di luna «lava la sua bellissima veste e la stende su una fune tirata da un versante all’altro del Vajo del Brutto, dalla
Bante alta alla
Bante bassa» (
bante = ‘parete rocciosa’)
[14]. Allo stesso modo pone ad asciugare il bucato (due grosse ceste) delle
fade dei Covoli di Velo, la più bella di tutte le fate della Lessinia, cioè Aissa Màissa: su una corda tesa da una parete rocciosa a quella di fronte, sopra la Valle del Covolo, e «nelle notti di plenilunio»
[15].
Simili alle
fade (della Lessinia centrale) e alle stesse
anguane anche le
Genti Beate del territorio di Giazza (Verona), paese cimbro: abitatrici dei covoli, le
Sealagan Laute,
Hoalagan Laute (così son chiamate in cimbro) sono delle «creature ambivalenti» in quanto si mostrano talvolta come donne, talaltra come «rappresentanti del mondo dei morti»; «appaiono nel passaggio tra la notte e il giorno e tra il giorno e la notte»; in alcuni casi si dimostrano benevole e aiutano i contadini, in altri invece sono «streghe cattive, pronte a recar danno a chiunque»; non sono temibili quando lavano la biancheria e la stendono su una corda tirata tra «lo Sealagan Kuwal e il monte della Grol»
[16].
Ma sulle «lavandaie notturne», delle credenze un tempo tanto diffuse quali aspetti sopravvivono nel Veneto d’oggi?
A tale domanda ha dato risposta Marisa Milani, docente di Letteratura delle Tradizioni Popolari, che con la collaborazione dei suoi studenti ha raccolto alcune delle, presumo, ormai ultime tracce
[17] della tradizione relativa a diversi esseri folclorici del Veneto.
La Milani suppone che originariamente le anguane fossero «ninfe delle acque»: sono così cambiate nelle loro caratteristiche, nella loro funzione, da risultare ormai delle «maligne lavandaie notturne» — e nel Vicentino il termine anguana è perfino diventato sinonimo di «puttana»
[18].
Le anguane lavano e stendono il bucato, e inoltre cantano melodiosamente (per questo Giacomino da Verona stesso le ha accostate alle sirene). Vivono sui colli Berici (Vicenza), sulle Alpi e le Prealpi.
Nelle testimonianze raccolte nel Vicentino a iniziare dal 1979-80 gli intervistati le definiscono «donne» (talvolta alquanto ciarliere: per «accostamento con lingua»), «fantasmi», «gente» («non erano streghe»), «bestie» (talvolta simili a rettili), «done grande, vestie de bianco» (in una storia un’anguana si sposa, in seguito muore e ritorna sotto forma di serpe). A Domegge di Cadore (Belluno) vengono chiamate «le Longhe Longane» e si dice rubassero i formaggi nelle cantine (si racconta anche là di una moglie «anguana», però dai piedi di capra).
Vivono invece per lo più nella bassa pianura e sulla costa le fate, le fade. «Si incontrano al lavatoio [nelle campagne] o in riva ai torrenti: sono gli spiriti di donne morte di parto, esseri infidi e pericolosi. Donano ricchezze, ma al loro apparire bisogna nascondere ogni ferro puntuto o tagliente; i doni spariscono appena le promesse siano disattese; sono donne bellissime e spesso si mescolano ai viventi, ma la loro vera natura diabolica si manifesta con i piedi stravolti o caprini.»
Sono spesso confuse dalle persone intervistate con le streghe e le anguane (si pensi soltanto ai piedi di capra della longana nel racconto sopra accennato).
Del resto, nelle testimonianze quasi esclusivamente vicentine, padovane e trevigiane riportate dalla Milani nel capitoletto intitolato Fate e streghe (dedicato per l’appunto a fate e «fate-streghe»), si ritrovano più elementi caratterizzanti le stesse anguane: il bucato notturno (il battere forte che sveglia chi dorme, l’impossibilità di vederle), la biancheria posta ad asciugare su fili, il canto; talvolta lavano e stendono al chiaro di luna, hanno vesti bianche (o dei veli). Oltre che «fate»/«fade»/«fave», erano chiamate e/o ritenute «spiriti», «streghe» («sarà stà streghe, no so»), «strighe».
Solo in un caso si ricorda che erano anime di donne morte di parto (a Barbisano, Treviso); in un altro che avevano «i pie roversi» (a Rosà, Vicenza)
[19].
Le «lavandaie» istriane — delle «Streghe lavandaie» — sono protagoniste di una leggenda che è stata rielaborata da Achille Gorlato ed Elio Predonzani nella loro raccolta
Poesia di popolo. Leggende istriane [20]. Sono streghe che di notte amano andare alla fontana del villaggio a lavare i loro panni (è una delle loro passioni).
Queste «lavandaie» (che si immaginano bruttissime) per la loro rumorosa attività, come è evidente, si fanno ben sentire, però non si riesce a vederle.
Si ritiene inoltre che entrino nelle case in cui sanno ci sia un bambino cattivo e, afferratolo, lo portino alla fontana, ove lo tuffano e lo sbattono fino a farlo morire, e poi continuano così e lo torcono, «come se non s’accorgessero che non è uno dei loro lerci panni».
Quelle streghe, dunque, paiono non frequentare la fontana di giorno, quando viene usata dalle donne “normali”, come se non solo non volessero mescolarsi a queste, ma anche non potessero farlo in quanto «esseri della notte» in tutto e per tutto
[21].
Quelle streghe entrano nelle case, ma come facciano non vien detto. E noi sappiamo che vi sono nel folclore europeo altri «esseri della notte» che entrano nelle case con l’intenzione di rapire e/o uccidere i bambini. Ma nella leggenda istriana i bambini sono quelli cattivi, e questo è un motivo che con tutta probabilità si è aggiunto in una fase più recente. Abbiamo in effetti a che fare con delle figure i cui tratti risultano un po’ contraddittori e confusi
[22]. Non si può escludere che un tempo fossero spiriti malefici, forse morti senza requie, che per «antropomorfizzazione»
[23] son diventati streghe con la funzione di spauracchio.
[2] Dario Spada (1989), che le chiama «lavandaie fatate», occupandosene nel suo
Gnomi, fate, folletti e altri esseri fatati in Italia [Milano, SugarCo, pp. 188-9], le divide in tre classi: Fate, Streghe, Fantasmi «irrequieti che scontano in questo modo la loro pena eterna». Le ritiene una discendenza delle «Creature delle acque, fantomatiche lavandaie che lavano nottetempo le loro vesti e le battono con battipanni d’oro» (creature sulle quali, purtroppo, l’Autore null’altro dice). Hanno, in genere, vesti bianche e «lunghi capelli arruffati e scarmigliati». Sono presenti in vari luoghi, dall’Istria alla Sardegna.
[3] «Erano, allora, creature bellissime e dalla voce incantevole, come quella delle sirene, superata solo, secondo l’affermazione di Giacomino da Verona, dalla voce soave dei lodatori celesti della gloria divina:
El ben ve digo ancor en ver sença bosìa,
ke, quant’a le soe voxe, el befe ve paria
oldir cera né rota né organo né symphonia
né sirena né aiguana né altra consa ke sia.
E nel Trecento Francesco di Vannozzo così s’inebria della sua amata:
perché san ben che tu sei sola enguana,
con quelle carni eburnee over di seta,
che paron latte con color di grana.»
[Manlio Cortelazzo (1994): Parole venete, Vicenza, Neri Pozza, p. 219.]
[4] In Friuli la
Agane viene chiamata anche
Sagane, nomi che nel dizionario
Il Nuovo Pirona (1935) vengono tradotti ‘strega, fata’. Si legge inoltre — sempre sotto la voce
Agàne,
sagàne — un’interessante informazione: «Presso Clauzetto [Pordenone] il
Clap [‘pietra, roccia’]
des Aganes, su cui le donnicciuole scorgono le orme delle streghe, che vi si radunano per i loro conciliaboli» [Giulio Andrea Pirona, Ercole Carletti, Giovanni Battista Corgnali (1988):
Il Nuovo Pirona, Udine, Società Filologica Friulana].
Nel “vecchio” Pirona (Jacopo Pirona, Vocabolario friulano, Venezia, 1871) — così com’è riportato da D. Spada (1989): cit., pp. 23-4 — sulle Saganes presso Clauzetto vien detto che «quando erano sorprese dal suono delle campane dovevano ballare loro malgrado», «rubavano fanciulli, e li cuocevano per mangiarseli»: li mettevano a bollire in una pentola (ma una volta un bambino riuscì a gettare una «cuoca strega» nella pentola, e da quel giorno «non si videro più menare le loro infernali ridde»).
Maria Savi Lopez (1889) [Leggende delle Alpi, Torino, Loescher, p. 256], delle Aganis del monte Canin (che chiama «divinità femminee»), riferisce due elementi: «i piedi rivolti all’indietro» e l’abitudine di divorare quanti sconsideratamente «di notte si avvicinano alla loro dimora».
A sua volta, Anton von Mailly (1922) ha potuto rilevare nel suo Leggende del Friuli e delle Alpi Giulie [Gorizia, 1989, Libreria Editrice Goriziana (ed. or.: Leipzig, 1922), pp. 91-2]:
Qualche volta le streghe vengono anche chiamate “Aganis” (lis aganis). Queste sono demoni femminili con i piedi rivolti all’interno. Portano sventura all’imprudente che di notte si avvicina al loro nascondiglio. Uno di questi nascondigli è una caverna presso Chiusa [...]. Anche sullo Judrio [torrente sul confine delle province di Udine e Gorizia] sono state avvistate streghe intente a sciacquare i panni al chiaro di luna.
Esseri non ben definibili dunque — streghe, fate, demoni — le Anguane, ma dai tratti tipici di tante «streghe».
E come non associare il nome sagane alla voce letteraria saga, ‘strega, fattucchiera’, dal latino saga, ‘id.’ (cfr. sagace e presagire), e al nome proprio Sagana, quello della strega compagna di Canidia, descritta all’opera da Orazio nelle Satire? [Cfr. Alfred Ernout, Antoine Meillet (1985) : Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris, Éditions Klincksieck (4e tirage), s. v. sagus.]
[5] Dino Coltro (1987):
Leggende e racconti popolari del Veneto, Roma, Newton Compton, p. 36.
Sulle Anguane, fondamentali le informazioni contenute nelle pp. 34-7. Cfr. inoltre: M. Cortelazzo (1994): cit., pp. 219-21; Daniela Perco, Carlo Zoldan, a cura di (2001): Leggende e credenze di tradizione orale della montagna bellunese. I, Seravella, Edizioni della Provincia di Belluno, pp. 29-50; Dino Coltro (2006): Gnomi, anguane e basilischi. Esseri mitici e immaginari del Veneto, del Friuli-Venezia Giulia, del Trentino e dell’Alto Adige, Sommacampagna, Cierre edizioni, pp. 56-9.
[6] Anguane è stato accostato anche al teonimo celtico
Adganae [Elisabetta Guardalben (1991):
Gli esseri fantastici nella cultura rurale, in
Cultura popolare del Veneto. La terra e le attività agricole (a cura di Manlio Cortelazzo), Cinisello Balsamo, Silvana Editoriale - Amilcare Pizzi, pp. 229-30; D. Perco, C. Zoldan (2001):
cit., pp. 29, 33-4;
http://www.eim.gov.it/files/uploads/SLM_n_14.pdf].
[7] Dino Coltro descrive le
Anguane come «fanciulle d’acqua bellissime, vestite di bianco che compaiono solo di notte, quasi sempre agli uomini, intente a lavare e a stendere i loro panni» [D. Coltro (2006):
cit., p. 13].
[8] Dino Coltro precisa: «[le Anguane] appartengono alla famiglia delle
Fade, così sono indicate le fate venete, che non hanno niente a che fare con le fate delle fiabe» [D. Coltro (2006):
cit., pp. 13-4; sulle
Fade (ritenute da alcuni «anime purganti»), cfr. le pp. 24-6].
[9] Carlo Lapucci (1991):
Dizionario delle figure fantastiche,
Milano, Garzanti, pp. 41-2.
[10] Raffaello Battaglia,
La «vecchia col fuso» e la filatura del lino nelle tradizioni popolari, in «Ce fastu?», XXV-XXVI, 1948-49, pp. 101-14; riproposto in: Gian Paolo Gri, Giuliana Valentinis, a cura di (1985):
I giorni del magico, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, pp. 116-34 — il passo da me citato si trova a p. 120.
Utili indicazioni ed osservazioni sulle Anguane, viste come ninfe alpine, sono contenute nel saggio di Battaglia, soprattutto le connessioni con le figure della Redodesa e delle altre «vecchie col fuso» (anche d’ambito tedesco e slavo).
Redodesa, o Redosega (Redòdesa, Redòsega), termine usato nel Bellunese, è uno degli antichi nomi veneti della Befana [a Venezia, esisteva la forma (A)redodese accanto alla voce maràntega, un tempo comune]. Il termine potrebbe essere connesso al fatto che la notte dell’Epifania è l’ultima delle dodici (dódese) del periodo natalizio; ma si ipotizza anche una derivazione dal nome Erodiade.
La Redodesa è un essere fantastico nei tratti più simile agli orchi, ad altri esseri femminili malefici, che non alla vecchia che porta o riempie di frutta e dolciumi la calza che un tempo i bambini trovavano appesa alla catena o alla cappa del focolare. Cfr., oltre al lavoro della Nardo Cibele: M. Cortelazzo (1994) ): cit., pp. 225-30; Marisa Milani (1994): Streghe, morti ed esseri fantastici nel Veneto oggi, Padova, Esedra editrice [4ª edizione], pp. 313-8; pp. 59, 72, 75-6; D. Coltro (2006): cit., pp. 128-30.
[11] La
pagogna, informa la Nardo stessa, è la
viburnum lantana, vale a dire la lantana, arbusto dai rami flessibili, che, come si riferisce in nota, veniva adoperato sì per far cesti, scope e legar le siepi, ma anche come difesa da streghe e «strigarie» («Le streghe si risentono soltanto delle legnate di
viburno, le quali sole sono sentite ed hanno virtù di ridurle in fin di vita»).
[12] Del lavoro di Nardo Cibele, ho riportato alcuni passi citati da Giambattista Bastanzi (1993) ne
Le superstizioni delle Alpi Venete, Vittorio Veneto, De Bastiani Editore [Treviso, 1888], pp. 11-7, riproducendo le virgolette così come compaiono in questo testo.
[13] D. Coltro (1987):
cit., p. 36 e (2006):
cit., p. 58.
[14] Cfr. l’antico alto tedesco
want, il ted.
Wand, ‘parete’.
[15] Attilio Benetti (1983):
I racconti dei «Filò» dei monti Lessini, Museo di Camposilvano - Museo di Boscochiesanuova, pp. 39-41 e 52-7.
[16] E. Guardalben (1991):
cit., p. 237; D. Coltro (2006):
cit., pp. 27-8.
[17] Coltro rileva: «Nel Veneto, gli episodi con protagoniste le
Anguane, si raccontavano fino agli anni venti e dopo, e si indicano ancora adesso, grotte e covoli dove hanno abitato le
Anguane» [D. Coltro (2006):
cit., p. 59].
[18] «Con l’attenuarsi o lo scomparire della credenza il nome passa a definire la donna che esce sola di sera» [M. Milani (1994):
cit., p. 292].
[19] M. Milani (1994):
cit., pp. 201, 284-95, 299-306; sulle
fade, cfr. altresì E. Guardalben (1991):
cit., pp. 228-9.
[20] A. Gorlato, E. Predonzani (1956):
Poesia di popolo. Leggende istriane, Trieste, Arti Grafiche Villaggio del Fanciullo, p. 79.
[21] D’altra parte il loro rendersi invisibili si giustificherebbe con il timore di essere riconosciute, ma allora si dovrebbe ipotizzare lavassero «i loro cenci» anche di giorno, per non far insospettire i loro compaesani.
[22] È piuttosto diffusa, a livello di credenze popolari, una certa confusione tra donne «streghe» e spiriti femminili malefici, confusione che si riscontra già in epoca antica e altomedievale (ad esempio nell’
Edictum Rothari).
[23] Vari esseri soprannaturali dell’Antichità (demoni femminili, spiriti dei morti...) hanno subito il fenomeno dell’antropomorfizzazione: da esseri soprannaturali sono divenuti esseri umani — si pensi alle
striges greco-romane che sono diventate «streghe».
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