Gallico *iuos "Taxus baccata"


«Il tasso (ivin in bretone) è l'albero dell'immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest'albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»

Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.



Il “tasso sanguinante” di Nevern 

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>


Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).







mercoledì 9 febbraio 2011

Le kannerezed-noz. 11ª parte



Approfondimenti: la morte delle vittime

Nel Voyage dans le Finistère (1799), Jacques Cambry riferisce una diversa tradizione sulle «lavandaie della notte» [→ 2ª parte], nella quale le kannerezed invitano a strizzare i loro panni, ma spezzano le bracciacasser = ‘rompere le ossa’ — solo nel caso in cui chi le aiuta lo faccia di mala grazia, mentre affogano chi le respinge: «Les laveuses, ar Cannerez-noz (les chanteuses des nuit), qui vous invitent à tordre leurs linges, qui vous cassent les bras si vous les aidez de mauvaise grâce, qui vous noyent si vous les refusez, vous portent à la charité, etc. etc.» [1].
Da questa sola testimonianza, che a Jean Berthou risulta essere «la prima traccia scritta della leggenda», si potrebbe arguire pertanto, che nel XVIII secolo nel Finistère si credesse che quanti avessero aiutato le «lavandaie» con gentilezza e benevolenza non solo avrebbero avuto salva la vita, ma anche non avrebbero subito alcun danno fisico.

Alle lavandaie del passo di Cambry si possono accostare quelle che si trovano presso il ponte di Planche, le quali impongono la torcitura e «spezzano gli arti» («brisent les membres») ai giovani passanti che a mezzanotte osino rispondere ai loro lazzi; e in parte anche la cannerez-nooz che finisce per mozzar le mani («couper les mains» [2]) ai viaggiatori cui presenta un lenzuolo da strizzare [→ 5ª parte].

Di una particolare «lavandaia» si parla in un’altra leggenda, narrata da François Marquer (in Revue des Traditions populaires, t. VII, p. 69) e menzionata sia da A. Le Braz [3] sia da P. Sébillot [→ 5ª parte]: l’anima di una donna epilettica annegata fa la sua penitenza nel luogo in cui è morta, al ponte di Saint-Gérand (nei paraggi del ponte di Kergoet, nel Morbihan, secondo P. Sébillot), dove lava la sua biancheria e potrebbe trascinare nell’acqua del canale un passante qualora riuscisse a toccarlo.
Abbiamo in questi due casi dei revenants malevoli che pur essendo delle lavandaie, sono caratterizzati da un diverso rapporto con l’acqua [4], nella quale appunto arrivano ad affogare alcune loro vittime. La «lavandaia» penitente del ponte di Saint-Gérand, inoltre, essendo morta annegata può esser fatta rientrare nella categoria de les noyés di cui Le Braz si occupa alle pp. 391-427 del I tomo de La Légende de la Mort, e P.-Y. Sébillot precisa che «restano a far penitenza nel luogo nel quale sono stati inghiottiti fino a che altri anneghino al loro posto» [5]. Tutto ciò invece non mi pare sia pertinente per le kannerezed descritte da Cambry [6].

Già Souvestre in effetti, nel 1835 — dopo appena trentasei anni dalla prima pubblicazione —, nella riedizione del Voyage da lui stesso curata aveva precisato: «Cambry travisa la superstizione delle Cannerez-nos. Si dice, nel paese, che queste lavandaie notturne vi costringono ad aiutarle a torcere la biancheria; ma che bisogna aver cura di torcere nel loro medesimo senso, perché, se si torce nel senso inverso, vi rompono le due braccia» [7]. È chiaro che qui Souvestre, correggendo Cambry, nega innanzi tutto l’eventualità che le «lavandaie» affoghino le loro vittime; e in secondo luogo, afferma che queste sono obbligate — e non invitate — a torcere e subiscono perciò in ogni caso la rottura delle braccia («les deux bras»), a meno che non riescano (fino in fondo) a girare la biancheria nello stesso senso delle «lavandaie notturne».
In realtà, se confrontiamo questo quadro con quello delineato nella storia di Wilherm Postik (Les Lavandières de nuit [→ 3ª parte]), notiamo una differenza non so quanto sostanziale: se è vero che le «lavandaie» non invitano, ma gridano di torcere i sudari, lo è altrettanto il fatto che la stretta del lenzuolo girato in senso contrario causa la morte di Wilherm per stritolamento/schiacciamento («il tomba broyé»), e quindi non soltanto la rottura delle braccia — lesione questa, che di per sé non è detto comportasse, nell’Ottocento, il decesso della persona colpita. Né d’altra parte alla fine del racconto Fantik ar Fur, la ragazza che trova morto Wilherm, scorge del sangue attorno o sotto il suo corpo, bensì pensa debba trattarsi di un ubriaco addormentatosi sotto le stelle.

Analizzando e mettendo a confronto le diverse tradizioni si è già visto come, anche negli altri testi esaminati, le conclusioni degli incontri con le «lavandaie» siano differenti, talvolta perfino all’interno di una stessa testimonianza.
È prevista la rottura delle braccia in Le Men («rompre les bras»), per la quale quel folclorista usa il termine supplice. Poiché questo in francese ha i significati di ‘supplizio’, ‘pena capitale’, ‘pena tremenda’, ‘sofferenza molto viva’, sarebbe ragionevole interpretare il danno subito dalla vittima come una grave menomazione temporanea oppure permanente, considerando che «rompere le braccia» corrisponde più a “fratturare” che non a “stritolare, schiacciare”. Ma non si può escludere che con «rompere le braccia» si intendesse “ammazzare”, che cioè quell’espressione fosse molto simile a “rompere il collo” (e Jean Berthou, come ha avuto occasione di comunicarmi personalmente [8], è proprio dell’avviso che le «lavandaie» delle credenze riferite da Le Men, uccidano le proprie vittime).
In Cadic, Jeannic C. teme che le kannerezed possano torcerla come fanno con la biancheria, la qual cosa suggerisce piuttosto una morte per stritolamento. Questa è invece esplicitamente indicata in de Cerny per chi, imprudente o spaccone, passando accanto alle «lavandières» o avendo cercato di fuggire, venga catturato e obbligato a strizzare i loro lenzuoli: tutto il corpo («les bras, le corps, les jambes») viene torto come fosse una corda e, ridotto in poltiglia (bouillie), gettato in acqua. Chi poi volesse sfuggire la stretta mortale, non riuscirebbe a evitare una fine analoga: infatti in questo caso le «lavandaie» lo picchierebbero a sangue con le loro mestole.
Un decesso per stritolamento va pure ipotizzato per Tanic Kloarec, vittima de Les lavandiéres de nuit de Pont-ar-Goazcan (Luzel): «elles lui tordent les bras, puis tout le corps» [→ 4ª parte].
Anche per le fanciulle di Commana, inoltre, le tanto temute «lavandaie della notte» erano solite stritolare le loro vittime: «les petites filles étaient terrorisées à l’idée d’être broyées par les femmes-spectres», come ci informa Jean Berthou.

Sono dunque cinque [9], compresa Les Lavandières de nuit, le testimonianze in cui le «lavandaie» stritolano/schiacciano le vittime, cioè causano sicuramente la loro morte, e in qualche caso (se non altro in de Cerny) una prevedibile fuoriuscita di sangue [10].
Il verbo broyer, che per I’appunto in genere si è tradotto con «stritolare», viene usato da Le Braz nel capitolo su Les morts malfaisants, là dove (a p. 205 del II tomo) racconta di un morto il quale, a un sarto che con il suo ago aveva fatto il segno della croce, gridò scomparendo: «Se tu non avessi avuto il tuo ago, avrei fatto di te un uomo (ti avrei stritolato)!» [11].
La locuzione «fare di te un uomo» viene usata da Le Braz in altre due storie: in Iannic-ann-ôd (narrata da René Alain — ­Quimper, 1889) si racconta di un bracciante buontempone al quale, essendogli sfuggito, Iannic-ann-ôd promette che la prossima volta avrebbe fatto di lui un uomo (in un’altra pagina Le Braz ricorda che Iannic «rompe il collo» a chi arriva a prendere); ne La fille à la robe rouge (narrata da Louise Cosquer — Kerfeunteun) una revenante trasformata in cane nero fa presente a un bracciante che la tiene con una corda e riesce a non farsela scappare: «se avessi potuto sottrarmi alle tue mani, avrei fatto di te un uomo» [12]. Presumo che «fare di te un uomo» sia un’espressione ironica, forse traduzione di un modo di dire bretone ottocentesco o più antico, significante all’incirca ‘ammazzare (con le proprie mani, riempiendo di botte...)’.

Rischiano di venir bastonati a morte dalle mestole delle «lavandaie» i tre giovani del racconto La lavandière de nuit du douet de Plougonven (Luzel) [→ 4ª parte], e le vittime delle lavandaie della testimonianza della de Cerny, quando, costrette da loro a torcere un lenzuolo, lo girano nello stesso senso [→ 8ª parte]. Si tratta di un modo di uccisione aggiuntivo o di ripiego, messo in atto nel primo caso da una lavandaia che, per far pagare la sfrontatezza ai tre giovani nel frattempo fuggiti a gambe levate, ha dovuto afferrare la mestola e inseguirli lontano dal lavatoio.

In altri due testi del Catalogo di Jean Berthou le «lavandaie» invece torcono le braccia: «[...] les bras eux-mêmes sont tordus» (E. Berthou); Ar C’hannerezed-noz a wee o divrec’h, «Les Lavandières de nuit tordaient leurs bras» (Gros). Dato che tordre significa ‘storcere, provocare una distorsione, slogare’, è evidente che qui le «lavandaie» causano piuttosto un trauma articolare, probabilmente alquanto grave, tale cioè da procurare una menomazione ai malcapitati loro vittime.

Al contrario, nella storia di Fanta Lezoualc’h (Le Braz), contenuta nella Légende de la Mort, non si indica come esito finale alcuna distorsione/rottura, né stritolamento — non c’è infatti torcitura collettiva conclusiva di biancheria — o diverso danno specifico, ma si fa solo intuire “una brutta fine” per Fanta.
D’altra parte, mentre la «lavandaia della notte» in questo racconto viene chiamata maouès-noz e invece semplicemente lavandière in quello intitolato L’intersigne de «l’étang» — ove appunto si ha a che fare unicamente con una messaggera di morte [→ 7ª parte] —, stando poi a Cambry (e può darsi pure a quanto detto da Le Braz stesso nella sua introduzione, a p. LIV) risulta fosse usata anche nel Finistère la denominazione kannerez-noz, molto più diffusa nella Bretagna bretonnante per chiamare quei particolari esseri femminili notturni.
E per di più, nell’introduzione alla prima edizione Léon Marillier ci presenta una differente maouez-noz, più simile nel comportamento alle kannerezed-noz tipiche: essa «costringe il malcapitato a sfinirsi» nell’attività di strizzare la biancheria, per cui «al mattino lo si ritrova disteso sul prato morto o svenuto» [13].
Anche in questa caso — come nei racconti in cui danzatori soprannaturali sfibrano fino alla morte le loro vittime — le «lavandaie» non schiacciano o spezzano, ma esauriscono le forze di chi deve loro obbedire, che tuttavia non sempre muore — e s’è visto sopra come altre vittime non è detto vengano uccise dalla stretta delle «lavandières».
Rimane dunque insoluta la questione della “fine” che avrebbe potuto fare Fanta né d’altra parte la risposta può essere fornita ricorrendo alla storia riportata da Luzel (La Lavandière de Nuit), là dove la «sorcière» manifesta ai due sposi la sua volontà, ormai delusa, di bollire Marianna e il figlio nel calderone, misfatto che, grosso modo (come s’è accennato [→ 6ª parte]), può esser ritenuto peculiare per una strega. Vi possiamo infatti riconoscere, sia pure con qualche differenza non trascurabile, due elementi propri della stregoneria (di epoca medievale e moderna): l’infanticidio, la caldaia. Questi appunto, strettamente connessi, si ritrovano anche nella storia di Marianna: la «strega» vorrebbe bollire non solo la donna ma anche suo figlio — in talune testimonianze, sia del Medioevo che dell’Età Moderna, le streghe risultano uccidere e divorare i bambini, soprattutto non ancora battezzati (ne succhiavano inoltre il sangue e con il grasso o altro fabbricavano alcuni unguenti) —; verrebbe usata la pentola del bucato — come si legge in documenti e scritti vari, compresi testi letterari e folclorici (e vediamo in alcune immagini dei secoli XVII-XVIII), per preparare intrugli e pozioni le streghe utilizzavano, oltre a crogioli e pentole, delle caldaie, probabilmente quelle stesse nella quali secondo alcune fonti venivano bolliti i corpicini dei lattanti [14].

Proviamo ora ad estendere un po’ l’indagine e il confronto, alla ricerca di eventuali analogie anche in altre tradizioni, di antica o contemporanea attestazione.
Lo stritolamento o schiacciamento operato dalle «lavandaie» bretoni — ammettendo che i narratori intendessero broyer come “rompere in pezzi (o ridurre in poltiglia) internamente”— si può forse confrontare con lo stritolamento delle ossa minacciato da Thor a Loki in Lokasenna str. 61:
Taci, o essere snaturato! Se no il mio martello
Miollnir ti toglierà la voce:
la mia mano destra ti colpirà coll’uccisor di Hrungnir,
così da stritolarti tutte le ossa. [15]
Ben diverso risulta invece lo schiacciamento provocato dagli incubi. A tale proposito, nella stessa Légende de la Mort, nel capitolo dedicato ai morti malefici, ho rintracciato — nel racconto La rancune du premier mari — un caso di un morto che si comporta come un incubo: questi si mette a cavalcioni sul petto di un vivo e gli stringe i fianchi, fino a farne divenire il respiro una specie di rantolo, ma senza ucciderlo [16].
Anche in un altro caso non ancora ricordato, un morto malefico non sopprime la propria vittima: un guardiano di faro (ne L’Esprit du phare [17]), colpito con gran violenza al petto, perde i sensi, viene poi tempestato di colpi, e rinviene tutto pesto (moulu), quasi ridotto in poltiglia (bouillie, termine che abbiamo già trovato in de Cerny), dunque non broyé. Invece si rammenta più avanti che un revenant scongiurato fatto entrare in un corpo di animale, può afferrare e trascinare sotto terra un passante [18].
Non sono molte in effetti le situazioni di morti malefici che causano la morte. Qualche interessante informazione ulteriore sull’esito di incontri con i defunti può esser tratta — ma appunto non più relativa a credenze bretoni su «morti malefici» — da alcune note dell’opera di Le Braz: a Guémené-sur-Scorff si pensa che l’Ankaw, primo morto dell’anno, strangoli quanti muoiono dopo di lui; nell’isola di Skye, le «lavandaie» morte di parto, se vedono esse per prime chi le osserva, provocano la perdita dell’uso degli arti [19].
Nel folclore irlandese e scozzese, la bean (banshee) e la bean nighe (una «lavandaia» chiamata talvolta Little­-Washer-by-the-Ford) — esseri femminili soprannaturali annunciatori di morte delle tradizioni gaeliche, simili per alcuni tratti alle kannerezed-noz — non causano danni fisici né uccidono, ma gemono per chi sta per morire o ne lavano gli abiti. Esiste però nelle Highlands una variante di indole malvagia della banshee, la baobhan sìth. In un racconto riportato da D. A. MacKenzie in Scottish Folk-Lore and Folk-Life, quattro fanciulle appaiono ad altrettanti cacciatori: di questi, tre muoiono dissanguati danzando in coppia con quelle loro sconosciute compagne; il quarto, che suona l’armonica, accortosi che dai corpi dei suoi amici cade del sangue, riesce a sottrarsi alla sua compagna rimanendo tra i cavalli — dagli zoccoli ferrati — fino all’alba [20].

Ci sfugge presumibilmente qualcosa di importante riguardo alle ossa nella tradizione bretone (importante non solo perché in Le Braz si parla molto, ovviamente, di cimiteri e ossari) [21]: si veda quanta riferito da Ginzburg su racconti folclorici, miti e riti di resurrezione di animali (ed esseri umani) dalle ossa, non sempre però integre e complete [22]. Si noti a tale proposito come in alcuni dei testi bretoni presi in esame le braccia vengano «spezzate», in altri viceversa «torte», il che suggerisce ulteriormente una contrapposizione “ossa rotte”/“ossa disarticolate” (e quindi intere).
Qualche particolare inoltre, potrebbe far pensare a collegamenti con le valenze magico/religioso-rituali riconoscibili nell’avvolgere/legare/annodare, nello strangolare (o impiccare, ovverosia forme di uccisione incruenta), nell’immergere e poi bollire (sempre uccisione incruenta, contrapposta a quella cruenta).

Già negli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury, nel capitolo LXXXVI — De lamiis et nocturnis laruis — della III decisio, si parla di persone che di notte, tra le altre azioni commesse, arrivano a «disgregare [o: disarticolare] le ossa degli uomini e talvolta ricomporle secondo un ordine diverso»: «uidentur [...] ossa hominum dissoluere, dissolutaque nonnunquam cum ordinis turbatione compaginare» [23].
Lecouteux e Marcq, non avendo trovato altre tracce di questa credenza, ritengono si debba vedere in essa «la semplice reminiscenza» del carattere diabolico delle sorcières, che appunto incarnano «il disordine, il caos, il rovesciamento dei valori correnti e il rinnegamente della fede cristiana» [24].
Più diffuso in effetti nel folclore risulta l’elemento ossa rotte. Gli stessi Lecouteux e Marcq, però senza specificarne la fonte, rammentano il caso di chi, uscito in una sera di tempesta per raccogliere le sue pecore, rischia di non tornare più a casa, e può essere infatti trovato morto al mattino, con le ossa rotte, ad opera di spiriti o ritornanti [25].

È lecito chiedersi a questo punto quali morti violente o improvvise fossero associate alle «lavandaie» o ad altri «morti malefici» dai Bretoni del XIX secolo. Poiché nelle credenze e nei racconti esaminati si parla in prevalenza di corpi stritolati/schiacciati, e in secondo luogo percossi a morte, bisogna prendere in considerazione gravi incidenti, soprattutto avvenuti all’aperto e sulle strade: persone travolte dopo il tramonto o all’alba da carri, talvolta ubriachi giacenti a terra, non visti a causa del buio; oppure individui aggrediti e presi a bastonate [26]. È certo che nell’Ottocento non erano rarissime le morti per caduta da cavalio o carro [27] (e si cadeva pure dalle finestre o da altri luoghi alti, per non parlare di incidenti sul lavora o suicidi), ma con tutta probabilità non erano questi i casi che potessero far sorgere il sospetto che certi cadaveri fossero stati strizzati dalle «lavandaie notturne».

Riguardo invece alla rottura/distorsione delle braccia, non si possono escludere incidenti e violenze simili, ma certamente di minor entità se non accompagnati da decesso, la qual cosa mi spinge a credere che i malcapitati, specie se colti alla sprovvista, talvolta ubriachi, o assaliti alle spalle, abbian potuto pensare o far/lasciar credere agli altri d’aver incontrato degli «esseri della notte» — taluni potrebbero aver scelto una spiegazione in qualche modo più “onorevole” anche nel caso di una violenta lite terminata non certo con una vittoria; e poi, è forse necessario venga denunciata all’autorità una aggressione o una disgrazia subita o colpevolmente provocata di notte, se in paese tutti, o quasi, credono alle kannerezed-noz?


[1] Voyage dans le Finistère, par Cambry, revu et augmenté par Émile Souvestre, Brest, Come et Bonetbeau, 1835, p. 20 [in: http://books.google.it/books?id=Rm32310wpkIC].
Nell’edizione del Fréminville (1836) il passo differisce dal corrispettivo dell’edizione del Souvestre solo per il singolare «le bras». Il singolare viene riportato anche da Le Braz nella sua citazione: «Les laveuses, ar cannerez noz, qui vous invitent à tordre leurs linges, qui vous cassent le bras si vous les aidez de mauvaise grâce, qui vous noient si vous les refusez» [A. Le Braz (1990): t. II, p. 239].

[2] Forse in questo caso si credeva che le vittime sarebbero morte per dissanguamento.

[3] A. Le Braz (1990): t. II, p. 239.

[4] Le Braz suppone che le kannerezed-noz potessero esser state in origine delle fate delle acque [A. Le Braz (1990): t. I, p. LIV].

[5] P.-Y. Sébillot (1998): 195.

[6] Si potrebbe però immaginare che le «lavandaie» di Cambry, che tra quelle presentate nel catalogo di J. Berthou sono le uniche ad affogare alcune loro vittime, siano figure nate da una possibile contaminazione con qualche tradizione relativa ad annegati.

[7] Alla p. 20 indicata supra nella nota 1. Cfr. anche J. Berthou (1993): 9, in cui, tra l’altro, le «lavandaie di notte» del passo di Souvestre sono citate nella forma «Cannerez-Noz».

[8] Lettera del 13.2.1994.

[9] O sei, se consideriamo quello che le lavandaie avrebbero potuto fare alla donna di Landéda [→ 5ª parte e qui sotto alla nota 11].

[10] Nella “7ª parte” ho citato il passo de Le Guide de la Bretagne, in cui Gw. Le Scouëzec, riferendo la credenza sulle «lavandaie della notte» circolante nella zona di Brasparts, ricorda che chi si imbatte in quegli Anaon non deve torcere i loro sudari, altrimenti il suo sangue «s’en écoulerait», e così morirebbe per la rottura delle mani causata appunto dalle «lavandaie» [Gw. Le Scouëzec (1989): 126]. Ritenendo che — in mancanza di una testimonianza integrale e possibilmente di una leggenda — il particolare del sangue (come s’è visto [→ 6ª parte], non certo gran che presente nei racconti bretoni presi in esame) potrebbe esser un’aggiunta dello stesso Le Scouëzec così come di un anonimo narratore, si può, se non altro, dubitare che la gente a Brasparts credesse che le «lavandaie» provocassero la morte sempre e soltanto per dissanguamento delle persone tante poco accorte da strizzare i sudari.
Comunque, credo sia da escludere la perdita copiosa di sangue per emorragia esterna, mentre non le è quella per emorragia interna.
Nel folclore in genere il “dissanguamento” mi pare piuttusto un fenomeno lento, causato da esseri succhiatori quali vampiri, incubi (si pensi al Mora degli Slavi), streghe e striges, che siano ritenuti responsabili del deperimento graduale e della conseguente morte delle loro vittime; viceversa, nel caso di morti improvvise e violente la limitata fuoriuscita di sangue (il quale, detto per inciso, in tali occasioni rimane o ridiventa fluido), normalmente non viene nemmeno nominata. Inoltre, l’uso di termini quali strangolamento, soffocazione, rottura del collo, stritolamento, annegamento, per spiegare i decessi, uso che sembrerebbe abbastanza preciso, credo celi in varie situazioni quelle che potrebbero essere state le vere cause di morte improvvisa delle persone che nelle credenze e leggende son diventate le vittime degli esseri della notte [cfr. P. Barber (1994): 21, 168, 216, 219, 269-70].

[11] In A. le Braz (1990): t. I, p. 333, nota 1, si ricorda il racconto di «lavandaie notturne» (narrato da L.-F. Sauvé in Annuaire des traditions populaires, t. III, pp. 16-8) in cui una delle «lavandières» dice a una donna che sta tornando da un battesimo, che in caso contrario «l’avrebbe così ben “torta, disattorta, ritorta, che mai nessun dipanatore di matasse sarebbe stato capace di sbrogliare ciò che avrei fatto di te”». Si tratta della storia della donna di Landéda ricordata anche da P. Sébillot [→ 5ª parte].

[12] A. le Braz (1990): t. I, pp. 404, 406; t. II, p. 305.

[13] A. le Braz (1990): t. II, p. 434.

[14] Cfr. F. Cardini (1984): 159-60, 207-11, 221.
Per quanto riguarda i testi letterari e folclorici, cfr. ad esempio, il cauldron delle streghe nel Macbeth e la caldaia o il paiolo della strega pedofaga in certe fiabe europee, la più nota delle quali forse è Hänsel e Gretel.

[15] C. A. Mastrelli (1982): 89-90.

[16] A. Le Braz (1990): t. II, p. 220.
Nel folclore slavo e prussiano dei vampiri/"spettri" e i Mora non solo succhiano il sangue, ma anche, come gli incubi, soffocano le loro vittime [P. Barber (1994): 27-8, 265-6, 269-70].

[17] A. Le Braz (1990): t. II, pp. 225-31.

[18] A. Le Braz (1990): t. II, p. 254.

[19] A. Le Braz (1990): t. II, pp. 230-1, 239, 254; t. I, p. 111.

[20] Cfr. K. Briggs (1985): 10-2, 14-5.

[21] Un esempio: nella storia La coiffe de la morte (raccontata da Pierre Simon — Penvénan, 1889) a un giovane che a mezzanotte, assieme a un neonato non ancora battezzato, riporta in un ossario un teschio, le ossa dei morti gridano che, se il bimbo non fosse stato ancora da battezzare, le ossa di tutti e due sarebbero state sparse in mezzo alle altre [A. Le Braz (1990): t. I, p. 334].

[22] C. Ginzburg (1989): 137, 190, 225-30.

[23] Gervasio di Tilbury (2009): 148-9.

[24] Cl. Lecouteux, Ph. Marcq (1990): 27, 30.

[25] Cl. Lecouteux, Ph. Marcq (1990): 11. È probabile si tratti di una tradizione medievale inglese. Oppure di un episodio simile a quello contenuto nel racconto islandese di Torolf «gambastorta», in cui si narra di un pastore che, non rientrato con il gregge a casa, venne ritrovato morto il mattino dopo presso la tomba di Torolf, tutto nero e con le gambe fratturate [M. Scovazzi (1973): 59], o a quello del pastore Thorgaut cui un revenant ruppe le ossa la vigilia di Natale, come si racconta nella Saga di Grettir [Cl. Lecouteux (1986): 104].
Sul «rispetto delle ossa» (che non devono esser spezzate), cfr. J. Chevalier, A. Gheerbrant (1988), s. v. Ossa.

[26] Cfr., in A. Le Braz (1990): t. II, pp. 1-7, quanto riferito su morti in incidenti e assassinati.

[27] Cadendo da cavallo o da un carro ci si può rompere il collo: incidenti del genere non potrebbero essere stati spiegati come esito di incontri con esseri soprannaturali del genere di Yannig an aod (Iannic-an-od, Yannic-ann-od, Iannic-ann-ôd)?

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