Gallico *iuos "Taxus baccata"


«Il tasso (ivin in bretone) è l'albero dell'immortalità perché sempreverde e di una longevità straordinaria. I cimiteri bretoni senza tassi non sono veri cimiteri. Ha anche la fama di essere il più antico degli alberi. La mazza del dio druido Daghda era di tasso così come la sua ruota. Si scrivevano incantesimi in ogham su legno di tasso. Quest'albero ha anche un simbolismo militare: si facevano scudi e aste di lancia con il suo legno.»

Tratto da: Divi Kervella, Emblèmes et symboles des Bretons et des Celtes, Coop Breizh, Spézet 1998, p. 17.



Il “tasso sanguinante” di Nevern 

<br><br>Il “tasso sanguinante” di Nevern <br><br>


Il “tasso sanguinante” (stillante linfa rossa) del cimitero della chiesa di Saint Brynach a Nevern, Pembrokeshire (Galles).







lunedì 13 dicembre 2010

Le kannerezed-noz. 4ª parte



Luzel, Cadic

Ne La Lavandière de nuit, racconto registrato da François-Marie Luzel, la protagonista-vittima, Marianna Kerbernès, è una madre di famiglia cui piaceva tanto filare da farlo almeno fino a mezzanotte e spesso fino allo spuntar del giorno, ricavandone una discreta quantità di filo che ogni sabato andava a vendere al mercato di Morlaix.
Una domenica sera, uscita nel cortile attorno alle undici e mezzo per rifornirsi di altra filaccia, incontrò una donna — sconosciuta — che, a suo dire, vista la luce nell’abitazione, aveva pensato di entrarvi per chiedere l’ora. Marianna, evidentemente senza insospettirsi, la fece entrare e rispose alle domande formulate dalla donna per informarsi sulle sue abitudini e sui presenti in casa. Poi la sconosciuta propose di rimanere con lei a filare fino all’alba e Marianna accettò.
Si misero dunque al lavoro e ben presto Marianna si accorse che l’ospite filava «con la rapidità di una macchina a vapore». Guardatala attentamente, solo allora notò che la compagna era molto vecchia e aveva un aspetto singolare che le provocò per un istante un brivido; preferì comunque non dire niente e continuò il suo lavoro.
Terminata velocemente la materia prima, Marianna pensò bene di profittare della situazione: suggerì pertanto di procedere con il lavaggio e il bucato del filo. Si recarono dunque al lavatoio ove effettuarono di gran lena la battitura; successivamente, rientrate dentro casa, accesero un gran fuoco sopra il quale posero un pentolone, e poi uscirono ciascuna con una brocca per riempirla con l’acqua della fontana.
Tutto quel trambusto finì per svegliare il marito, il quale vide la sconosciuta all’opera. La donna perciò si avvicinò al letto [1] e fissò l’uomo con occhi simili a due carboni ardenti, cosicché quegli per la paura cacciò la testa sotto le lenzuola e rimase in silenzio.
L’ospite quindi uscì di nuovo mentre Marianna stava rientrando; allora suo marito, avendo riconosciuto quella donna, saltò fuori dal letto e rivolse alla moglie tali parole:
– Disgraziata! Non vedi dunque che hai fatto entrare in casa una lavandaia della notte, e che questa donna non viene da parte di Dio ma da parte del diavolo! Chiudiamo prima la porta, cosicché non possa rientrare, poi cambiamo di posto o capovolgiamo tutto quello che ha toccato.
Così fecero: gettarono all’altro capo della casa l’arcolaio e la rocca usati dalla lavandaia, rovesciarono la pentola e ne versarono l’acqua sul fuoco.
La donna, trovata la porta chiusa, bussò e gridò un paio di volte a Marianna che le aprisse, ma questa, ammonita dal marito, rimase zitta.
La lavandaia — che il narratore chiama anche «strega»: «reprit la sorcière (car elle était aussi sorcière)» — allora si rivolse alle cose da lei usate in precedenza, ma nessuna poté aprirle: l’arcolaio era stato «rovesciato e gettato in fondo alla casa»; la rocca aveva subito lo stesso trattamento; la pentola era stata «rovesciata e gettata sul pavimento» [2]; l’acqua era stata versata sul fuoco; infine i tizzoni, bagnati dall’acqua, non avevano più che «un avanzo di vita» che andava estinguendosi.
A quel punto la strega, gettato un grido orribile, prima di andarsene disse a Marianna:
– Sei stata fortunata a trovare uno più saggio di te per darti consigli, giacché diversamente, sul far del giorno t’avrebbero trovata cotta nella pentola, assieme a tuo figlio!...
Da quel giorno Marianna Kerbernès «si coricò a un’ora adeguata, come tutti devono fare» [3].

François Thépaut narrò a Luzel un secondo racconto intitolato La lavandière de nuit, che ha invece come protagonista una ragazza, Soezic ar Floc’h.
Questa stava rincasando, una sera d’aprile, attorno alle nove, dopo aver portato del latte alla fattoria del Loguellou (Botsorhel, nel Finistère), quando, un po’ prima di arrivare nei pressi di uno stagno usato come lavatoio, si sentì chiamare un paio di volte ma non scorse nessuno. Affrettò perciò il passo, giunse allo stagno e mentre stava saltando «il ruscelletto che ne defluisce», sentì tre colpi di mestola sulle pietre del lavatoio, tanto violenti da farne risuonare tutta la valle.
Allora Soezic si ricordò dei vari racconti dei compaesani che affermavano aver visto a quello stagno delle lavandaie di notte. Fuori di sé dalla paura, si mise a correre a perdifiato fino a cercar rifugio nella prima casa incontrata lungo il cammino, ma qui «cadde come morta, varcandone la soglia». La ragazza di conseguenza si ammalò gravemente fino a morirne [4].

A questo si può accostare un altro racconto raccolto di Luzel, La lavandière de nuit du douet de Plougonven [5], in cui si narra che tre giovani, tornando a casa attorno alle due o alle tre di una notte di dicembre, dopo aver giocato a carte per più ore, videro una «lavandaia di notte» che lavava della biancheria al lavatoio di Plougonven. Uno di loro le chiese se volesse essere aiutata a torcere, ma la donna non rispose, si alzò e guardò nella direzione da cui era venuta la domanda. I tre, presi dal panico, scapparono via «come se il diavolo fosse alle loro calcagna» e nella folle corsa persero o gettarono zoccoli e cappelli. Raggiunta una chaumière [6] che si trovava lungo la strada, vi si precipitarono dentro, mentre la lavandaia li stava per raggiungere con l’intenzione di ammazzarli con la mestola. Non potendo entrare nella casa, la donna gettò il suo utensile contro la porta che per il violento colpo andò in pezzi; «e prima di andarsene gridò loro:
“Potete ritenervi fortunati, perché se vi avessi presi, vi avrei insegnato a passare la notte giocando a carte e a trovarvi così tardi per strada, senza necessità!”»
I tre giovani aspettarono che fosse pieno giorno per uscire e recuperare i loro zoccoli e cappelli. Questi vennero però ritrovati, spezzati e strappati, «sulla pietra dello stagno ove la lavandaia di notte lavava la sua biancheria, al chiaro di luna».

D’aver visto le «lavandières de minuit», che lavano i propri lenzuoli al chiaro di luna, ricorda inoltre Laouic Mihiac durante una veglia serale al manoir di Keramborgne (la casa natale di Luzel), secondo quanto narrato da Luzel in «Alan Kourio» [7].
Se un incauto viandante aiuta quelle lavandaie a strizzare il loro lenzuolo girando nello stesso senso, esse gli torcono prima le braccia, poi tutto il corpo. È quel che è accaduto «allo sventurato Tanic Kloarec, a Pont-ar-Goazcan, una notte che s’era attardato a bere al borgo di Plouaret».

Il testo intitolato Les Lavandières de Nuit, tratto da Nouveaux Contes et Légendes de Bretagne (1922) di François Cadic, e riportato in J. Berthou (1993): 58, costituisce una testimonianza composita e per più tratti singolare, articolata in tre parti.
Nel primo paragrafo si parla brevemente di lavandaie condannate a battere e a torcere di notte la loro biancheria per aver lavorato, da vive, di domenica, e si nominano un paio di località del Morbihan ove si credeva ce ne fosse una, per lo meno in anni precedenti la pubblicazione del lavoro di Cadic. Di seguito, poi, viene menzionata la presenza a Poul-er-Pont (Trinité-sur-Mer) di «un uomo che lavava», che una sera un marinaio del paese cercò invano di catturare: invano, giacché il “lavandaio” si spostava da una pietra all’altra con una velocità sorprendente (mentre gli alberi si agitavano come per la tempesta, nonostante il bel tempo).
Nella seconda parte, di pochissime righe, si riferisce delle «lavandaie penitenti di Brennilis» che «sembrano accettare abbastanza allegramente il loro castigo», poiché cantano soavemente sulle sponde del fiume Ellez.

Nell’ultima parte (di quattro paragrafi), accanto a una categoria di «fantasmi di notte» considerati maschili dalla gente — dei quali credo Cadic abbia parlato in un paragrafo precedente —, viene posta una specie femminile di fantasmi, le Kannerézed-Noz, che come la famiglia del Hoper e di Iannic-an-od [8], vanno considerati esprits malfaisants o revenants. Si tratta di donne «che, da vive, erano lavandaie malelingue, lavoranti senza coscienza; logoravano fino alla trama “la biancheria dei poveri, sfregandola con delle pietre per risparmiare il sapone” [“le linge des pauvres, en le frottant avec des pierres pour économiser leur savon”]». Qui, come è evidente, Cadic cita Le Men, ma subito dopo si serve di J. Cambry, menzionandone il passo fondamentale sulle kannerezed: «“Elles vous invitent à tordre leur linge, dit Cambry, vous cassent le bras si vous les aidez, vous noient si vous les refusez.”» [9]
Viene raccontata poi la storia di Jeannic C. di Brennilis, che un sabato sera dopo il tramonto, andò al fiume a lavare la biancheria dei figli perché fossero «decentemente vestiti» il giorno dopo, domenica. Sulla pietra accanto alla sua all’improvviso s’inginocchiò «una donna di taglia gigantesca, una Kannérez-Noz, dai denti enormi e d’una magrezza spaventosa».
Mentre Jeannic lavava lenzuola e coperte [couettes ‘letti di piume’; ‘piumini, piumoni’], la «lavandaia della notte» lavava piccole cose, ma — quel che era ancor più singolare — «ogni volta che la Kannérez-Noz torceva un panno nelle sue mani, ne sgorgava un fiotto di sangue. Ben presto il fiume ne era rosso.»
Jeannic, piena di paura, non osava alzarsi, temendo che sarebbe stata strizzata a sua volta. Nel frattempo erano comparse altre due lavandaie, le quali misero la biancheria ad asciugare. «Le loro mani vi lasciavano pure delle tracce di sangue.»
Jeannic, a quel punto, non riuscendo più a resistere, fuggì verso il villaggio: per sua fortuna le lavandaie non la inseguirono, perché «sulle madri di figli numerosi non hanno alcuna facoltà».


[1] Presumo si trattasse di un tipico lit clos bretone, a battenti che si chiudono.

[2] In J. Berthou (1993): 48 [F.-M.Luzel (1995): 170], si legge: «– Je ne puis pas, répondit la marmite ; l’on m’a aussi renversée et jetée sur l’aire de la maison». L’aire è il suolo in terra battuta che costituisce il pavimento della casa di Marianna, come mi è stato precisato da Jean Berthou stesso (in una lettera datata 13.2.1994).

[3] J. Berthou (1993): 47-8; F.-M.Luzel (1995): 167-70.

[4] Il racconto, narrato il 20 febbraio 1890, è riportato alle pp. 175-6 di F.-M.Luzel (1995), con il sottotitolo Soezic, e alle pp. 223-4 di F.-M.Luzel (2007), con il titolo La lavandière de nuit et Soëzic ar Floc’h.

[5] Si trova in F.-M.Luzel, Contes inédits II. Texte établi et présenté par Françoise Morvan, Rennes, Presse Universitaires de Rennes/Terre de Brume, 1995, e in F.-M.Luzel (2007): 215-7.

[6] Piccola casa contadina col tetto di paglia.

[7] In Nouvelles Veillées bretonnes. Texte établi et présenté par Françoise Morvan, Rennes PUR/Terre de Brume, 1995; riproposto in F.-M.Luzel (2007): 225, con il titolo Les lavandiéres de nuit de Pont-ar-Goazcan.

[8] Il Hoper o hopper-noz, ‘urlatore notturno’ (chiamato così per il suo grido ho! ho!, al quale non si deve rispondere), e Iannic-an-od o Yannic-ann-od (‘Giovannino della costa’, un annegato urlante, il quale arriva a rompere il collo a chi è così imprudente da rispondergli tre volte) sono «spiriti malevoli» confusi con revenants [cfr. A. Le Braz (1990): t. I, pp. LIV, 404 sgg., e t. II, pp. 222 sgg., 239; Gw. Le Scouëzec (1986b): 126].

[9] Il passo di Cambry, così come lo riporta J. Berthou [(1993): 9] — come si è visto [→ 2ª parte] —, risulta un po’ più esteso. L’espressione «de mauvaise grâce», omessa da Cadic, è presente però sia nell’edizione del 1835 curata da Souvestre [a p. 20; cfr. http://books.google.it/books?id=Rm32310wpkIC] sia in quella del 1836 [J. Cambry (1993): 40].

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